I racconti della Polaroid
24 January 2023
Le donne che popolano l’immaginario del fotografo inglese Miles Aldridge sono dive sofisticate e impeccabili. Ma, scavando sotto la superficie lucente di bellezza e perfezione, sono esseri umani persi nell’affrontare comuni drammi esistenziali. Disagio psicologico e inquietudine sono il sottotesto alla rapsodia di colori che diventa una gabbia iridescente, metafora di incomunicabilità. Il mon-do finemente costruito e orchestrato da Aldridge informa una realtà parallela che, nonostante l’artificio, offre a ognuno di noi la possibilità di interrogarsi su emozioni e stati d’animo universali.
Alienazione e solitudine. Dove nascono i temi che serpeggiano nel suo lavoro?
Avevo 9 anni quando i miei genitori hanno divorziato, sono passato da un’infanzia dorata a drammi isterici. Mia madre era depressa e completamente intrappolata nella fine del matrimonio. Le donne che ritraggo s’ispirano a lei, incarnano le promesse infrante che si è trovata a fronteggiare dopo il naufragio della vita coniugale.
Le scene che raffigura non sembrano ca-late nel presente, ma è come emergessero da un passato recondito.
Parlano della mia giovinezza, di mia madre, delle mie fidanzate, di tempi pre-internet e cellulari… Esprimono una nostalgia per quella che, in definitiva, è stata la mia vita. Mio padre era un grande graphic designer degli anni 60-70, lavorava con i Rolling Stones e i Beatles. La mia infanzia con lui è stata rock and roll, colorata e hippie. I suoi libri d’arte, di cinema e i fumetti mi hanno formato. Da lui sono stato avvolto in un’energia sensuale e surreale che ho rielaborato a mio modo.
Ogni suo scatto sembra pensato come un disegno. Mi parla del suo processo creativo?
Quando ho cominciato volevo diventare regista. Ho sempre ragiona-to attraverso storyboard, un approccio che ho applicato alla fotografia: i disegni mi aiutano a capire cosa mi serve. Molti fotografi trovano l’immagine nel mondo intorno a loro io, al contrario, la costruisco prima nella mia testa e solo dopo scatto la foto. Sono stato molto influenzato da Fellini, soprattutto dell’ultimo periodo, quando ricreava i set a Cinecittà: erano mondi artificiali, parte della sua immaginazione. Ispirato da lui, costruisco il mio universo per averne il controllo assoluto.
I suoi lavori sembrano appartenere al genere cinematografico, con un prima e un dopo. Quanto è importante la narrazione per lei?
Tutte le immagini indelebili che compongono il mio immaginario vengono dal cinema. Ho sempre voluto ricreare i sentimenti che provavo guardando i film da giovane. Mentre il cinema ha un inizio, uno svolgimento e una fine, nella mia fotografia non c’è una spiegazione di quanto sta succedendo, è lo spettatore a immaginarla. Credo che la chiave del mio lavoro sia proprio questo coinvolgimento, rendendo protagonista chi guarda, con la sua interpretazione.
Spesso nelle sue foto si respirano atmosfere noir. Perché?
Nel cinema noir la luce è usata per enfatizzare il dramma, gli angoli di ripresa e la composizione per esprimere la tensione dei personaggi. Mi sono sempre divertito a giocare con questi elementi. La grande differenza è che il noir è in bianco e nero, la mia fotografia è a colori.
Che sono innaturali, smaltati, da fumetto…
I miei colori nascono dall’amore per la pop art. Da giovane una mostra di Peter Lindbergh mi scioccò per la bellezza delle sue donne in bianco e nero, che sembravano quasi disegnate a carboncino. Dopo di lui, non aveva senso continuare a usare quel linguaggio. Decisi di rendere il colore nodale nella mia ricerca: ambivo a ricreare lo stesso impatto che aveva nei quadri di Warhol. Sono diventato subito molto sicuro del mio modo di lavorare sul cromatismo: la sfida è stata vedere quanti colori diversi potevo inserire in un solo scatto senza creare disarmonia.
Perché ha intitolato il suo nuovo libro Please Please Return Polaroid (Steidl)?
Nella fotografia professionale la Polaroid viene usata come traccia da dare al laboratorio per capire come sviluppare le immagini su pellicola, ha quindi un valore funzionale e poi in genere si butta. Il titolo significa che ho sempre chiesto che mi venisse restituita, per me la Polaroid ha un valore intrinseco molto speciale. È uno schizzo fotografico, un’idea incompleta per definizione e per questo complessa da leggere e da spiegare. In un mondo in cui tutto è istantaneo, un’immagine che nasce come istantanea, ma ha ancora insito in sé un tempo di at-tesa, diventa un oggetto magico e prezioso.
Che significa lo still life in copertina?
Volevo evocare una rapina in banca: una maschera da pagliaccio abbandonata in strada euna valigetta. Racchiude il doppio binario del mio lavoro: un elemento giocoso in un’atmosfera poco rassicurante.
Nel suo modo di lavorare usa molta manualità, utilizza solo pelli-cole, esplora varie tecniche… Qual è il valore di questa artigianalità?
L’arrivo del digitale ha reso la fotografia sempre più facile, sminuendone via via il valore. Il mondo è pieno di soluzioni semplici ma prive di contenuto. Vengo da una generazione in cui tutti scattavamo in pellicola, per me la fisicità dell’immagine è molto importante, cerco la complessità. Vedere scatti digitali stampati nello stesso modo non mi rappresenta, per questo mi cimento con tecniche complesse come la serigrafia.
Il libro ha un doppio finale, uno felice l’altro malinconico.
Invita a non leggere mai la realtà in una sola direzione. È il mio modo di vedere la vita, le cose spesso non sono ciò che sembrano. Propongo interpretazioni multiple offrendo la possibilità di entrare nell’immagine e dare la propria versione della storia.
In queste pagine, scatti del fotografo inglese Miles Aldridge, tratti dal suo nuovo libro Please Please Return Polaroid (in uscita quest’anno per Steidl, 208 pagine, 58 euro).